Descrizione e considerazioni di uno degli ultimi momenti di vita associata in Valle Pesio.
(Tornando a quasi un anno fa. Senza distanziamenti sociali e mascherine)
Diversi minuti prima, arrivando con cautela, in silenzio. Avvicinandosi – sguardo leggermente rivolto in basso in segno di rispetto – alla piazza, dove già un certo numero di persone sono radunate. Composti ci si dispone vicino al portale d’ingresso della chiesa, in attesa del feretro e dei famigliari del defunto. Qualche cenno di saluto con la testa o a mezza voce, ad altri compaesani, dà il tempo di guardarsi un po’ intorno e avere una stima – più o meno fatta con intenzione – delle altre persone presenti a quello che, il gergo ufficiale, chiama: “il pietoso rito funebre”.
I pochi minuti che precedono l’ingresso nella chiesa sono in realtà molto lunghi. Stando fermi, in quell’atteggiamento composto e raccolto, la mente ha modo di fare le sue congetture più disparate. O anche solo: considerare l’evento in sé. Ma d’altronde il tempo s’avverte in base ai sentimenti e alle considerazioni che ci suscita quel determinato momento. E da sempre – dagli antichi greci meglio dire – il tempo ci pare dilatato in particolar modo quando si tratta di un avvenimento tragico.
Con qualche minuti d’anticipo rispetto all’orario previsto – quello scritto sul “tilet” – arriva il carro funebre, che è in realtà – e non come dice il termine – un’auto di lusso opportunamente modificata. Dietro: alcune auto dei famigliari. Essi scendono e si collocano accanto al feretro, seguendo una gerarchia legata al grado di parentela. Dopo alcuni istanti il parroco esce dalla chiesa, accompagnato da un chierichetto che tiene in mano il secchiello dell’acqua per l’aspersione, e va incontro alla bara.
Il resto della cronaca – seppur generica e senza riferimento ad un funerale specifico – sarebbe per lo più la mera trascrizione del rituale liturgico. Ma non è su questo che intendo soffermarmi. Piuttosto proprio sul momento in sé. Che, guarda caso – escludendo le nostre feste di tradizione agreste, come quelle di Sant’Eligio e Sant’Isidoro -, è proprio uno degli ultimi momenti di vita associata, in valle.
Purtroppo sì. E sebbene sia un po’ triste parlare di questo argomento, è proprio durante quell’ora, o ora e mezza, che la gente del luogo si raduna e, ogni volta, considera quante persone in meno ci siano. Quanti si conoscevano, man mano, non ci siano più. In questa valle che – eppure – era così ricca di gente, di vita, di entusiasmo.

Ad un funerale ci si veste in modo appropriato – i più evitando di esibire qualcosa di rosso – o, perlomeno, prestando quel po’ d’attenzione che richiede ogni avvenimento di riguardo. E nel rendere omaggio per l’ultima volta ad un defunto, si compie un vero e proprio rituale. Un rito. Un insieme di comportamenti validi per un’intera comunità.
Più in generale, sono ormai passati circa sessant’anni dagli ultimi grandi cambiamenti. È con il Concilio Vaticano II (1959) che “l’eterno riposo” è divenuta la preghiera più frequente per il culto dei morti. Ed è del 1963 l’introduzione della cremazione. Dopo esser stata proibita per molti anni – infatti – la Chiesa cattolica romana l’ha consentita, purché non volta ad esprimere incredulità verso la dottrina della resurrezione dei corpi.
Anche nella nostra piccola valle, un tempo, si badava all’osservanza del lutto. Oggi non esiste quasi più. Eppure parliamo solo di alcune decine di anni fa, quando i parenti di un defunto, per un anno e un giorno, osservavano il lutto. Vestendo di nero o al massimo di grigio; senza prender parte ad eventi pubblici, né poter cantare o ballare. Gli uomini, poi, portavano un bottone nero cucito sul lato sinistro della giacca. Penso sopra il cuore.
É rimasto un retaggio di questa tradizione, di questa forma di rispetto; nell’ordine di alcuni giorni, talvolta.
Ma il tema cardine di questo argomento è, da sempre, il più grave dell’esistenza umana. Forse quando si partecipa ad un funerale si pensa proprio a questo: alla morte. Al senso della vita e alla sua ineluttabile fine. Ci guardiamo intorno, alzando lo sguardo ai boschi e alle montagne che da sempre ci accolgono, e meditiamo sulla vacuità umana.
Che strano – però – scoprire che non sempre la morte è stata intesa come tendenzialmente facciamo noi tutti, oggi. Un grande storico francese, Philippe Aries (1914-1984), noto – tra gli altri – per il suo libro “Storia della morte in occidente” (Milano, 1978), individua quattro tipi di morte fondamentali, che si sarebbero succeduti nell’ultimo millennio. Molto diversi tra loro e lontani da questa nostra concezione. Nella quale intendiamo la morte come un tabù, un qualcosa quasi da tener nascosto, o perlomeno lontano, e di cui non parlare, magari. Ma non è sempre stato così. Era la famigliare rassegnazione al destino comune della specie. Come quando – e faccio un esempio solo per render l’idea – il nostro amico a quattro zampe giunge alla fine dei suoi giorni. Il cane “lo sente” e non percepisce un sentimento di disperazione; semplicemente diremo: “va a morire”. Cerca un corso d’acqua o un luogo – non più quello in cui è stato per tutta la vita – dove spegnersi. Così è stato anche per gli uomini: Et moriemur, moriremo tutti. Poiché l’uomo subiva una delle grandi leggi della natura, della specie, e “non pensava né a sottrarvisi, né ad esaltarla” (Aries). Questa stagione caratterizzata dall’accettazione della morte, era intesa, dunque, soltanto come una delle grandi tappe della vita.
Dal XII secolo circa, poi, subentra la consapevolezza della propria esistenza individuale; e, dal Settecento, l’uomo tende ad un senso nuovo della morte. La drammatizza e la esalta. Quella romantica, retorica, è innanzitutto la morte dell’altro. Fino ai nostri ultimi due secoli: XIX e XX, col nuovo culto delle tombe e dei cimiteri. Quindi l’importanza del ricordo.

Uscendo dalla chiesa s’immergono appena le dita nell’acqua santa, per un ultimo segno della croce, dopodiché ci si accoda in una grande fila, verso il camposanto. Davanti al feretro capeggia la croce portata in processione, con dietro le donne. Quindi segue la bara – talvolta portata a spalla da 4 o 6 amici e parenti – e i famigliari. Dietro tutti gli altri. Con un leggero chiacchiericcio sulla quotidianità, che si confonde tra le “Ave Maria” del Rosario. In processione vengono portate anche le bandiere. Della Leva, degli alpini, della Compagnia di San Giovanni o quella di Sant’Eligio, a seconda del defunto. Il percorso dura alcuni minuti. Le parole che ha da poco detto il sacerdote stanno per esser rimosse dai pensieri, probabilmente. Parole di conforto, di speranza. È questo, infondo, il cuore della nostra religione. E, credenti o meno, praticati o meno, lo conosciamo. Il cristianesimo non può essere etichettato solo come una religione. É una cultura. La nostra, quella occidentale. Addirittura – come dice il filosofo Umberto Galimberti – è anche “uno stato d’animo” ed è caratterizzato da una figura essenziale che si chiama Speranza, nei confronti del futuro.
Entriamo nel cimitero. L’ultima parte del rito sta per compiersi. E una volta che la bara sarà fatta scivolare nella tomba, dopo l’ultimo omaggio dei congiunti, molte delle persone intervenute al funerale s’avvicineranno con discrezione ai parenti. Una stretta di mano accompagnata da due baci sulle guance ed un’ultima parola ancora: “condoglianze”. “ Cum dolere”. Io soffro assieme a te.
Manola Plafoni
(Articolo sul numero di Dicembre 2020 della rivista storica Chiusa Antica)